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Lega, un partito nordcoreano?

Bossi-Maroni: uniti nel no a Monti, divisi sul futuro.

Ma quali idee?

Era cominciato tutto così: un capo-padre padrone vecchio e malato, manovrato e tenuto politicamente in vita da una masnada di cortigiani, gestisce il partito alla stregua di un dittatore, vietando al leader dell’opposizione interna di prendere parte ad iniziative politiche. Insomma gli nega il diritto di parola, in quanto voce dissenziente. Intanto il figlio del leader maximo di cui sopra viene evocato, nientedimeno, come possibile futuro erede del potere assoluto paterno. Attenzione gentile lettore, il presente articolo non parla della Corea del Nord, di Kim Jong-il e del “grande successore” (il suo secondo genito, Kim Jong-un).

Maroni però replica senza esitazioni e sul suo profilo facebook parte all’attacco: «Mi hanno appena chiamato per comunicarmi che la segreteria nazionale ha deciso di impedirmi di tenere gli incontri pubblici già programmati in tutta la Lombardia. Non so perché, nessuno me l’ha spiegato, sono stupefatto, mi viene da vomitare. Qualcuno vuole cacciarmi dalla Lega, ma io non mollo!». Molti i militanti a sostenerlo e Bossi decide di ritirare il “divieto”. Qualche giorno dopo si tiene uno dei convegni che erano stati fissati, al teatro Santuccio di Varese. Maroni raduna le sue truppe e invita Bossi – presente sul palco – a «cacciare chi lo vuole cacciare»: 2mila “camice verdi” accorse urlano «Reguzzoni fuori dai coglioni» e chiedono a gran voce anche di rompere per sempre con Berlusconi. Poi va in scena lo psicodramma sull’autorizzazione all’arresto di Cosentino e a stretto giro arrivano le dimissioni proprio di Reguzzoni dal ruolo di Capogruppo alla Camera.

Il quadro si completa con una manifestazione a Milano con un bagno di folla per Bossi, che però riceve anche una bordata di fischi per il mancato comizio di Maroni. E, pure tra parole di unità continuamente ribadite, non c’è nemmeno una stretta di mano tra l’ex ministro dell’Interno e l’ex capogruppo. Bossi prende la parola e si scaglia, con la consueta pacatezza, contro il governo «infame»: «Stai attento Monti, o ti vengono a prendere a casa.. fuori dai coglioni». Poi ammonisce il Cavaliere: «A Berlusconi do un suggerimento, la Lega ti chiede di far cadere questo governo infame o non riuscirà a tenere in piedi il governo della Lombardia, dove ne stanno arrestando uno al giorno.. non tenere il piede in due scarpe, non ci piace chi lo fa».

Il modello carismatico di massa – su cui il partito si è retto fin dalle origini – vacilla, risulta sempre più inattuale ed inadeguato. Il leader storico, Umberto Bossi, stenta ormai a suscitare passione e identificazione personale. La sua malattia gli rende più difficile comunicare, tanto più controllare l’organizzazione del partito. Il suo carisma non è più indiscusso né indiscutibile, come un tempo. La sua dipendenza dalla cerchia di politici e familiari che lo circonda appare evidente. E questo ne indebolisce l’immagine. D”altro canto, però, è difficile anche per Maroni subentrare a Bossi, senza l’assenso di quest’ultimo – o, peggio, contro di lui: 9 sostenitori su 10 di Maroni nutrono fiducia nel Senatur. Una conferma di quello che ha osservato recentemente Gad Lerner, ossia che sono di due figure non alternative e competitive, ma complementari: Bossi, la maschera “populista”, interpreta la parte del partner fedele e leale di Berlusconi verso cui è cresciuta l’insofferenza dei militanti; Maroni, il volto “governativo”, recita invece la parte della Lega “di opposizione” e “di lotta”. Ma, al di là della questione di chi comanda, c’è della sostanza politica in tutta questa faccenda o è una mera lotta di potere? Distinzioni a livello di contenuti per la verità non se ne sono viste finora. Ed ecco che ad emergere è l’idea di una Lega con Bossi presidente e con Maroni segretario, senza il cerchio magico. Non diverse idee dell’Italia o, che so, della Padania.

(Articolo pubblicato sul numero di febbraio de “La Campania giovane”)

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